Quando il volto sciolto non fa più paura:
resoconto di un esperienza di trattamento
del trauma attraverso l’EMDR
di Mirella Di Calisto
Anche quest’anno la Scupsis (Scuola di Psicoterapia
Strategica Integrata Seraphicum), ha organizzato
a Roma, nel mese di settembre, l’ormai
tradizionale workshop di approfondimento rivolto a
Specializzandi, Psicologi e Psicoterapeuti. L’incontro
monografico è stato diretto dallo Psicologo e Psicoterapeuta
Roger M. Solomon, ed ha avuto come argomento
principale il trattamento del trauma attraverso
la tecnica dell’EMDR (Eye Movement Desensibilization
Reintegration). Tale tecnica è nata a partire dalle osservazioni
e dagli studi della Psicologa e Psicoterapeuta
Francine Shapiro (1995) che, sperimentando gli effetti
di un certo movimento ritmico degli occhi su di se
e sui suoi pazienti, scoprì come questi contribuivano
a riorganizzare i ricordi e a riconnettere i pensieri alle
emozioni provate nel momento in cui era stato vissuto
un trauma.
Tale tecnica è stata in seguito perfezionata dall’autrice,
fino ad arrivare alla stesura di un vero e proprio protocollo
in cui la stimolazione bilaterale (che può essere
ottenuta sia attraverso il movimento oculare sia con
l’utilizzo di tamburellamenti ritmici sui dorsi delle mani)
non è che una delle fasi.
L’obiettivo dell’EMDR è quindi quello di aiutare il paziente
a riorganizzare i ricordi vissuti come traumatici e
di renderli non più angoscianti.
Numerose sono le ricerche neuroscientifiche condotte
su tale strumento e che riguardano sia la sua efficacia,
sia i meccanismi fisiologici attivati dalla sua azione (Maxifield,
2003).
E’ stato così possibile scoprire che l’applicazione
dell’EMDR:
riconnette le strutture neurali della corteccia associativa
con quelle del sistema libico;
ha l’effetto di sconvolgere la memoria di lavoro;
attiva il sistema parasimpatico riducendo l’arousal.
Anche se non si conosce ancora esattamente quale sia
la relazione tra questi processi e l’effettiva rielaborazione,
sappiamo che essi si verificano in concomitanza alla
reintegrazione del ricordo traumatico nel flusso costante
dell’esperienza del paziente e alla conseguente rilettura
delle credenze negative che la persona ha costruito
a partire dall’evento.
Oltre a fornire a noi partecipanti queste e molte altre informazioni
sull’utilizzo dell’EMDR, durante il workshop
Solomon ha portato numerosi esempi e casi clinici tratti
dalla sua esperienza con le più importanti Istituzioni
americane, con i vigili del fuoco statunitensi, con i soccorritori
coinvolti nel disastro dell’11 settembre e con
i corpi speciali della Polizia Italiana. Noi partecipanti
abbiamo così avuto la possibilità di fare un’esperienza
professionale ed umana molto intensa che ci ha permesso
di conoscere i fondamentali principi teorici che
guidano attualmente la pratica clinica nel trattamento
del trauma e della dissociazione ad esso correlata, di
avere un primo approccio con la tecnica dell’EMDR, di
assistere dal vivo ad una dimostrazione di trattamento
e di ascoltare la testimonianza diretta di un partecipante
ai programmi “pear-to-pear” gestiti dal Dr. Solomon
per il Nucleo Operativo Centrale di Sicurezza (NOCS).
Attraverso modalità tipiche della cultura anglosassone,
che fanno dell’esperienza in prima persona e dell’osservazione
diretta i principali strumenti della formazione,
Solomon ha arricchito di un valore aggiunto l’incontro,
fornendo anche un modello di insegnamento alternativo
rispetto a quello italiano, in cui la massima priorità
viene data a tutto ciò che concerne la teoria e la speculazione
concettuale.
D’altronde, e questo non è semplicemente il parere
di chi scrive ma sono anche le considerazioni che negli
ultimi anni sono state dalla ricerca sui meccanismi
neurofisiologici della memoria, le tracce della memoria
procedurale sono quelle che rendono maggiormente
stabile nel tempo qualsiasi apprendimento. Lo stesso si
può dire per le emozioni, collante, fissatore delle nostre
esperienze, nonché tassello irrinunciabile dei processi
di codifica delle nostre esperienze e dei ricordi. Proprio
nella convinzione che queste siano le basi di un apprendimento
qualitativamente migliore, chi scrive ha deciso
di presentare il modello di intervento del Dr. Solomon a
partire dalla raccolta dei fatti, dei pensieri e delle emozioni
che ha vissuto in prima persona come volontaria
per l’applicazione dell’EMDR. Questo anche nella convinzione
che il lettore sia maggiormente interessato
ad “ascoltare” una testimonianza diretta e che abbia la
possibilità di approfondire l’aspetto più squisitamente
teorico, attraverso pubblicazioni e manuali suggeriti in
bibliografia. Quello che segue, rappresenta dunque il
racconto in prima persona di due incontri avvenuti durante
il workshop.
1° Incontro
Avviene alla fine della lezione ed ha come obiettivo
quello di valutare se l’EMDR è un trattamento adeguato
a me ed al tipo di trauma che ho subito, inoltre mi dà la
possibilità di decidere se ritengo opportuno effettuare
una seduta vera e propria l’indomani per permettere
anche agli altri partecipanti di osservare l’applicazione
della tecnica. Roger raccoglie prima di tutto la mia
anamnesi: fa delle domande sulla mia vita, sul mio lavoro
e mi chiede, nello specifico, di raccontargli quale è
stato l’avvenimento per il quale mi rivolgo a lui.
Gli racconto un’esperienza che mi aveva molto turbato:
l’anno precedente, lavorando come operatrice per i
Centri Antiviolenza della Capitale, mi era stato affidato
un servizio di supporto presso l’abitazione di una donna
che era stata aggredita e sfigurata da un uomo con era stata aggredita e sfigurata da un uomo con
dell’acido1. Dal momento in cui avevo guardato il suo
volto letteralmente “sciolto” avevo avuto molta paura,
una paura che era sempre rimasta lì, congelata e che
spesso aveva influito negativamente nella mia attività
lavorativa presso il servizio nei mesi successivi.
Insieme facciamo l’esercizio del “posto sicuro”, una visualizzazione
che permette di capire se il paziente è in
grado di rimanere presente quando vengono rievocate
le emozioni e le immagini legate all’evento traumatico:
mentre seguo con lo sguardo li movimento ritmico delle
sue dita visualizzo il posto che per me simboleggia il
riposo, la tranquillità, la sicurezza e mi concentro sulle
sensazioni che questo posto mi dà.
Subito dopo cominciamo la fase di assessment: identifichiamo
l’immagine precisa che mi aveva spaventata
(che per me era il viso della donna nel momento
esatto in cui si era voltata ed io l’avevo guardata per la
prima volta) e le credenze negative che avevo costruito
da quel momento in poi. Continuiamo a lavorare
sull’immagine della donna attraverso i movimenti degli
occhi, sulle credenze e sulle sensazioni corporee: via via
l’immagine si fa più lontana, le sensazioni nel mio corpo
passano gradualmente dal caldo rovente al fresco.
Alla fine della seduta perdo l’immagine ed ho una strana
sensazione: la mia testa è “leggera” ma non confusa,
come se si fosse liberata da un peso in eccesso. Con
cordialità e calore io e Roger ci congediamo. Durante la
notte ripenso a quella donna, ma non ho più quella forte
sensazione di paura: quella stessa immagine generava
ancora ansia ed agitazione ma non più quel terrore
disturbante. 2° Incontro
Decido di effettuare un’altra seduta che questa volta avverrà
alla presenza del gruppo dei partecipanti. Roger
effettua nuovamente la fase di l’assessment e mi chiede
di fissare l’immagine precisa del volto della donna.
Mi rendo subito conto che le emozioni rievocate sono
sempre riferite alla paura ed al timore ma sono molto
meno intense e che si localizzano dietro la schiena. Roger
mi chiede di identificare il pensiero che lego a quella
paura: “Può succedere anche a me”. Cominciamo da
subito a lavorare su questo pensiero e lo ristrutturiamo
in: “Io non sono sicura”. Ripensando oggi a quella frase,
mi appare più chiaro come alla base della mia paura ci
fosse una mia forte identificazione con la donna sfigurata.
Procediamo con la fase di Desensibilizzazione: mentre
seguo con lo sguardo le dita di Roger le emozioni si legano
strettamente al filo dei miei pensieri e l’immagine
di quel volto sfigurato perde gradualmente di temibilità.
Sento la presenza del terapeuta molto forte ed anche
il gruppo dei compagni che osservano mi fornisce
un’ulteriore sensazione di contenimento e supporto.
Roger non interviene verbalmente e tra la stimolazione
bilaterale ed il momento in cui vi associo pensieri ed
emozioni, lascia che sia io ad attribuire nuovi significati
all’evento. E’ la fase dell’istallazione: attraverso l’aumento
dell’epinefrina e la diminuzione della serotonina i
movimenti oculari stanno favorendo il funzionamento
dell’ippocampo nel sistema libico e la riconnessione dei
circuiti tra quest’ultimo e la corteccia associativa.
Questa volta riesco a mantenere l’immagine della donna
per tutta la seduta e a conclusione la paura è ormai
scemata, lasciando il posto ad un grande senso di rilassatezza
e stabilità. I pensieri che produco ordinatamente
a partire dalla fase iniziale fino a conclusione sono:
Io non sono sicura,
Posso evitare che mi succeda,
Quella persona non sono io,
Ho scritto questa esperienza in un quaderno e l’ho messo
via,
Io sono sicura per quella che sono.
Arriviamo così alla fase di scansione corporea: alle sensazioni
di caldo si susseguono quelle di fresco, così
come era stato nella fase di assessment e mi rendo
conto di essere contemporaneamente rilassata e molto
presente a me stessa.
Quando alla chiusura Roger mi chiede per l’ultima volta
di effettuare una valutazione mi accorgo che la paura
è ormai notevolmente ridotta.
A conclusione mi trovo ancora in uno stato di contemporanea
lucidità e forte contatto con le mie emozioni, la
sensazione di “mente leggera” è questa volta maggior di “mente leggera” è questa volta maggiormente
identificabile: è come se avessi messo ordine
nella mia mente, come se quello che prima la occupava
disordinatamente avesse trovato il suo giusto posto. Le
mie associazioni stanno proseguendo. Mentre collego
in modo molto veloce e cosciente eventi ed emozioni
legate all’esperienza con quella donna arrivo a ricordare
di aver in dosso una collana e degli orecchini che
non uso particolarmente spesso e che (coincidenza?!?)
portavo il giorno in cui la vidi. In quel momento ebbi
la sensazione distinta di aver superato quella paura: ciò
che rimaneva era un grande senso di soddisfazione.
Nelle ore seguenti, il processo di riconnessione delle
mie esperienze alle sensazioni e ai sentimenti ha avuto
in continuazione ed il pensiero della collana mi ha portato
così a ricordi spaventanti ben più antichi che hanno
minato per molto tempo, il mio senso di sicurezza: su di
essi abbiamo lavorato in un terzo ed ultimo incontro. E’
stata quella una seduta dalle tinte emotive molto intense,
in cui ho avvertito come la relazione di fiducia con
il terapeuta e il grande senso di contenimento fornito
dalla presenza del gruppo siano stati fondamentali. I
contenuti da me portati in quell’occasione sono molto
delicati per poter essere riportati in quest’articolo e
sono attualmente oggetto del mio percorso terapeutico.
Posso però testimoniare come i miei sentimenti di
paura e perdita della sicurezza mi impedissero, durante
la sessione, di pensare e sentire le emozioni contemporaneamente. Penso oggi di aver
sperimentato coscientemente l’essenza stessa della
dissociazione: un funzionamento in cui il rapporto tra
pensato e sentito è mutuamente esclusivo, in cui le
emozioni si spengono automaticamente alla presenza
della razionalità e quest’ultima non può connettersi ai
contenuti del cuore.
Le riflessioni nate dall’incontro formativo/terapeutico
con Solomon sono state numerose ed hanno avuto la
funzione di chiudere dei vecchi interrogativi per aprirne
dei nuovi.
Come paziente/psicologa, mi sono portata a casa una
visione del mondo, meno minacciosa e più strettamente
connessa ad un rapporto di proporzionalità rispetto
alla percezione delle mie risorse. Quando l’ambiente
esterno viene ridimensionato su tali parametri, la persona
acquisisce una visione più consapevole dei propri
limiti e delle proprie capacità nel momento attuale.
Così può consolidare il proprio locus of controll interno
(Bandura, 1977) mentre, in un processo circolare, la visione
del Mondo assume maggiore prevedibilità.
E’ anche possibile ipotizzare come, oltre a consolidare il
maggior senso di sicurezza in se stessi, il superamento
di un trauma dia la possibilità di apprendere il processo
attraverso il quale quest’ultimo è stato superato e di rimetterlo
in atto quando un’altra situazione traumatica
si ripresenta. Rispetto a questo, sarebbe interessante
verificare se tale ipotesi può essere supportata anche
dallo studio dei meccanismi neurofisiologici su cui influisce
l’EMDR e scoprire se la riorganizzazione neurale
provocata dai movimenti oculari in uno stato cosciente,
oltre a creare delle connessioni nuove, permette al
nostro cervello di apprendere come crearle spontaneamente.
Se così fosse potrebbe essere attribuito a questa tecnica
anche un effetto preventivo rispetto alla formazione
di nuovi traumi. Questa supposizione si riferisce alla
mia esperienza personale. Infatti, pochi giorni dopo il
workshop, trovandomi in una situazione per me potenzialmente tenzialmente
traumatica, mi sono resa conto di come il
maggior contatto con la paura nell’hic et nunc non solo
non abbia compromesso la mia capacità di pensare, ma
abbia anche impedito di sviluppare una nuova traumatizzazione.
Venendo a delle riflessioni maggiormente legate al mio
ruolo di terapeuta in formazione, penso che l’incontro
abbia fornito numerosi spunti che riguardano: il forte
potere catalizzatore dell’EMDR nell’elaborazione
dell’evento traumatico, gli effetti che l’utilizzo di questa
tecnica può avere sulla relazione terapeutica e la
conseguente responsabilità etica che tali aspetti pongono
al clinico. L’EMDR è un’esperienza molto intensa
per il paziente, che porta a sensazioni di ansia, smarrimento
e dolore talmente intenso da poter diventare
disgregante. Il sistema terapeutico si confronta con
la dissociazione, con la rievocazione di eventi in cui il
paziente ha sperimentato il crollo totale di qualsiasi
strategia cosciente di sopravvivenza: in questa situazione
la qualità del rapporto tra terapeuta e paziente
diventa più che mai preziosa. In alcune fasi il paziente
sente forte il dolore, la propria fragilità ed è inoltre fortemente
suggestionabile: questo da al clinico un forte
potere d’influenza sul paziente e lo pone in una posizione
di grande responsabilità deontologica. Un terapeuta
troppo “interventista” può rischiare di diventare manipolativo,
così come un terapeuta troppo “passivo” può
rischiare di non far sentire il paziente abbastanza sicuro
e protetto. Mentre combatte contro i suoi demoni, la
possibilità di affidarsi al terapeuta è una risorsa irrinunciabile
per il paziente; in tale situazione è quindi comprensibile
quanto forti siano i sentimenti di dipendenza
del paziente. E’ così che il terapeuta assume, tra i tanti
compiti, anche il dovere di monitorare continuamente
l’andamento dell’equilibrio della relazione: questo determinerà,
a mio avviso, il buon esito del trattamento,
basandolo sullo sviluppo di una dipendenza che abbia
funzione temporanea e maturativa piuttosto che regressiva.
Avviandomi a concludere, un ultimo pensiero va
all’esperienza terapeutica e all’importanza di sperimentare
una tecnica come paziente prima di praticarla. Lo
ritengo un atto di onestà intellettuale ed umana sentire,
oltre che conoscere teoricamente e tecnicamente, cosa
significa per il paziente confrontarsi con gli eventi, i vissuti
ed i pensieri che lo spaventano lungo. Per questo
reputo il percorso terapeutico parte irrinunciabile del
trainning per tutti noi che aspiriamo da intraprendere
la professione di psicoterapeuta. A questo proposito,
spesso mi pongo una domanda dall’apparente sapore
retorico che, in ultima analisi, giro al lettore come possibile
spunto di riflessione: “Come si può portare qualcun
altro per mare se non si è mai imparato a nuotare?”
Bibliografia
Bandura, A. (1977). Self-efficacy: torward a unifing theory
of behavioral change. Psychological Review, 84, pp.
191-215.
Maxfield, L. (2003). Clinical implications and recommendations
arising from EMDR research findings, Journal of
Trauma Practice, 2, 61-81.
Maxfield, L. Shapiro, F. & Kaslow, F. W. (2007). Handbook
of EMDR and Family Therapy Processes. New York: Wiley.
Shapiro, F (2002). EMDR as an Integrative Psychotherapy
Approach: Experts of Diverse Orientations Explore
the Paradigm Prism. Washington: American Psychological
Association.
Shapiro, F. & Forrest, M. S. (1997) EMDR: The Breakthrough
Therapy for Overcoming Anxiety, Stress, and Trauma.
New York: Basic Books.
Shapiro, F. (1995). Eye movement desensitization and
reprocessing: basic principles, protocols, and procedures.
New York: Guilford Press.
Sitografia:
www.emdr.com
L’acidificazione del volto è una pratica tristemente nata
in Paesi orientali come Pakistan o Bangladesh, che oggi
si sta diffondendo con l’emigrazione anche in Paesi Europei
come Inghilterra ed Italia. Consiste in una forma
di punizione tacitamente autorizzata dalle comunità
ed utilizzata da alcuni capi famiglia verso mogli, sorelle
o figlie quando queste assumono dei comportamenti
che non aderiscono ai canoni dell’integralismo islamico.
Avere una relazione di convivenza con un compagno
al di fuori del matrimonio, opporsi alla vendita delle
proprie figlie o valorizzare la propria avvenenza sono
alcuni degli esempi di comportamento che, in questa
cornice culturale, sono ritenuti punibili attraverso l’acidificazione
del volto.
Quando il volto sciolto non fa più paura:
resoconto di un esperienza di trattamento
del trauma attraverso l’EMDR