Il tempo in psicoterapia:
un’altra “lancia” per la psicoterapia strategica
“Anche un orologio fermo segna l’ora giusta due volte al giorno” H.Hesse
di Federico Piccirilli
“È già passata un’ora?!?!?”…il tempo, volenti o nolenti, condiziona e definisce la nostra vita ed insieme a questa l’attività quotidiana di psicoterapeuti, a volte lasciandoci sorpresi dalla “velocità” con cui scorre altre generando sensazioni di immobilità, incastrandoci nella lentezza del ticchettio della lancetta dei secondi.
Per parlare del “tempo che cura o della cura del tempo” “ai posteri l’ardua sentenza”’ credo sia opportuno in primis fare un excursus storico filosofico sulla classificazione data ad un concetto, che insieme allo spazio, costituisce elemento fondante dell’agire quotidiano.
Eraclito, solo più di duemila anni fa, sosteneva che non ci si bagna mai due volte nella stessa acqua di uno stesso fiume. La certezza sostenuta è che ogni attimo vissuto da ciascuno non è mai uguale all’altro e noi non siamo mai gli stessi da un istante all’altro, da un tempo all’altro.
L’idea principe è che tutto, dentro e fuori di noi, cambi di continuo pur non riuscendo sempre a percepire questo processo di perenne cambiamento.
Ad esempio, quanto di più visibile abbiamo, il nostro corpo, è diverso da un istante all’altro, e ci troviamo a vivere in questa continua diversità.
L’approccio
Fin da bambini facciamo fatica a capire che “ora” non è più presente nel momento stesso in cui lo pronunciamo, per ritornare al panta rei, in ciascuno organismo in ogni momento della vita nasce e muore qualcosa, definendoci diversi in ogni istante.
I neuroni non sono sempre gli stessi, i ricordi vengono sommersi da altri, tanto che a fatica ricordiamo elementi indietro negli anni.
Sempre i ricordi di cui siamo certi in realtà si modificano da un momento all’altro.
Filosofi, scienziati, matematici, menti acute si sono cimentate nel “tempo” a declinare/risolvere il concetto del Tempo, elemento che in natura non ha uguali, caratterizzato dall’avere un solo senso e dall’avanzare, a detta di qualcuno, inesorabilmente, a mio modo di vedere fortunatamente.
Numerose sono le teorie che provano a definire questo concetto tanto caro quanto temuto ma su alcune di queste vorrei spendere qualche parola per poi continuare questo lavoro con concetti e riflessioni tratte dall’agire quotidiano e dal lavoro svolto nella pratica clinica.
Per Hegel, il tempo è il principio medesimo dell’Io, riportando questa dimensione come movimento intuito.
Secondo Bergson il Tempo è rappresentato da una linea ma “la linea è immobile, mentre il tempo è mobilità. La linea è già fatta, mentre il tempo è ciò che si fa, anzi è ciò per cui cosa si fa”.
Ha dunque due assunti fondamentali: il nuovo caratterizzante ogni istante e la conservazione integrale del passato, che aumenta ed accresce continuamente con il moto verso il futuro.
La più antica concezione del tempo è dei Pitagorici, dove la dimensione del tempo è considerata come ordine misurabile del movimento.
Aristotele sosteneva osservando il cielo la possibilità di misurarlo perfettamente con i due concetti del prima e del dopo.
Platone lo definì “l’immagine mobile dell’eternità”.
- Heideeger nell’opera Essere e il Tempo (1927) riconosce la possibilità dell’avvenire, del quale dice “…non significa che un’ora che non è ancora divenuta attuale e che lo diverrà, ma l’infuturamento per cui l’Esserci perviene a sè stesso, in base al suo più proprio poter essere”.
Nel fare quotidiano fin dall’inizio della mia carriera molte le domande e riflessioni che mi sono posto rispetto a diversi temi, affrontati in maniera più o meno approfondita durante l’iter degli studi di specializzazione.
Tra questi il tempo, la durata ed il setting della terapia sono stati quelli più ricorrenti che mi hanno accompagnato nel tragitto da studio a casa, la sera dopo il lavoro.
Da giovane appena specializzato nozioni quali quelle suddette hanno insito qualcosa di magico, quasi sacro, difficilmente controvertibile ed alle quali attenersi come ogni buon cristiano si attiene alle sacre scritture.
Dunque giù con elucubrazioni, più o meno sane e sensate, sul setting, sul definire bene il contesto, avere sempre ben chiaro “dove andare a parare”, e via discorrendo, tutte regole più o meno rigide atte a salvarmi dalla confusione o forse dall’emozione delle “prime volte professionali”.
Certo la rigidità del setting e di altri concetti poi a venire era qualcosa che rappresentava per un giovane alle prime esperienze una buona base sicura ma col passare degli anni ed avendo con il tempo “generato” ed interiorizzato una base sicura professionale, che va oltre la didattica appresa, credo che il setting debba essere qualcosa di assolutamente flessibile che si struttura di volta in volta, cambiando e modificandosi sulla base della persona con cui ci troviamo ad agire e sulla situazione che ci si presenta.
Ogni anno di lavoro trascorso induceva nella mia testa, lasciando meno spazio all’idea del setting e se la scrivania dovesse o non dovesse esserci e se fosse giusto il lei o il tu etc., il desiderio di riuscire a lasciare un “segno” nella persona, modificando a suo favore un equilibrio sino a quel punto doloroso e disfunzionale al vivere bene.
Certo non mi riferisco a qualcosa di mio, per glorificare il mio sé ipertrofico o godere del mio narcisismo, quanto lasciare alla persona qualcosa utile per sé, avendo chiaro che la missione di tutte le professioni di aiuto e quella di mirare all’autoestinzione.
Proprio seguendo questo iter mi sono reso conto che la flessibilità e la possibilità di cambiamenti work in progress sono le uniche armi possibili contro il malessere che le persone portano nella stanza della terapia.
Altro tema ricorrente nei mie pensieri all’inizio della carriera e ancora oggi è il Tempo e la sua interconnessione con il percorso terapeutico.
Intanto perchè una, due o tre volte alla settimana o al mese o all’anno?
Me lo chiedevo per rispondere anche alla richiesta delle persone: “cos’è, quanto dura, quando finirà, etc.”.
Quale il principio che regola la frequenza del tempo tra un colloquio ed un altro?
I soldi?
Il sistema occidentale che detta le sue regole?
L’efficacia del percorso?
Dogmi teorici?
Alle molteplici domande credo che possa oggi rispondere serenamente no.
Ritengo fondamentale, in virtù della flessibilità più volte citata, cardine dell’approccio strategico, poter utilizzare il tempo come strumento di lavoro da adattare alle singole situazioni ed alle singole persone, potendo il tempo stesso avere un effetto terapeutico e liberatorio per le persone.
A tal proposito mi piace ricordare la storia di una giovane donna che arrivò facendomi una richiesta di consulenza dopo un pregresso percorso durato 7 anni con cadenza settimanale.
Arrivò con la sensazione di autostima pari a zero, convinta di una nuova sconfitta e pronta ad un’ulteriore perdita di tempo.
La restituzione nel primo colloquio fu che considerando il molto e fruttuoso lavoro già svolto negli anni ci saremmo visti ogni tre settimane, la reazione fu di meraviglia come anche le emozioni positive generate sulle quali, grazie semplicemente ad un utilizzo strategico del tempo, si è costruito un processo terapeutico conclusosi nel migliore dei modi, per la giovane donna e per io giovane, allora, terapeuta.
Il tempo dunque come vera e propria “lancia” utile a contenere a volte ed altre a valorizzare la persona con cui entriamo in relazione.
In ragione di ciò decido il tempo e lo strutturo con ogni persona in base alla situazione specifica con cui mi trovo ad operare, non seguendo rigide regole che definiscono N° incontri ogni “X” tempo, condividendo la frequenza che ritengo opportuna con le persone, rendendole da subito protagoniste del percorso e iniziando da li a puntare sulle loro risorse di persone attive e capaci, insomma per dirla all’americana empowered.
Dunque numerose le terapie ormai affrontate negli anni ed il tempo “costantemente” variabile, a seconda della situazione/persona incontrata.
Inoltre altra evidenza acquisita nella pratica clinica è come quanto definito all’inizio vada continuamente monitorato per permettere eventuali azioni di correzione per arrivare al fine ultimo vale a dire il ben-essere della persona.
Rispetto al tempo riferito alla durata, l’approccio strategico si colloca nel panorama delle psicoterapie brevi, caratterizzata dalla definizione di obiettivi, risoluzione del sintomo e durata che si colloca in un arco temporale cha possiamo delimitare tra i 2 ed i 12 mesi.
L’idea cardine è che in una buona psicoterapia la risoluzione del problema è a portata di mano e gli obiettivi posti nel contratto terapeutico vanno raggiunti in un tempo breve, lasciando la possibilità alla persona di decidere, dopo la risoluzione dei sintomi, se proseguire il trattamento per potere, se ritenuto importante, approfondire percorsi di esplorazione interiore.
L’esperienza clinica e le persone trattate hanno disconfermato le accuse, lette qua e la, rivolte all’approccio strategico secondo cui risoluzioni in tempi brevi comportino uno spostamento del sintomo e ricadute, quanto affermato è il frutto di un’esperienza personale decennale in campo clinico che ha come conferma “solo” i resoconti dei percorsi di psicoterapia raccolti nel tempo ed i follow up a 3, 6 e 12 mesi, che solitamente accompagnano i miei percori terapeutici. Da considerare inoltre una domanda ormai sempre meno implicita portata dalle persone che ricorrono al trattamento vale a dire la tempestività del fare bene ed il prima possibile.
Ora pur essendo convinto che l’onnipoitenza non è di questo mondo i risultati nel “tempo” hanno parlato chiaro ed i sintomi trattati si sono ridotti o scomparsi in tempi brevi, quindi come non credo sia giusto assecondare aspettative miracolistiche delle persone allo stesso modo proporre percorsi con tempi biblici di trattamento non penso rappresenti la strada maestra.
Mi piace pensare, ed è un mio obiettivo riccorrente nei percorsi terapeutici, che a differenza di quanto esposto nella trama del libro di Fabio Volo del 2007 “Un giorno in più” in cui l’autore si augurava poter avere più tempo rispetto ad una storia di amore a scadenza, che ogni nuovo trattamento avviato possa durare “una seduta in meno”, perchè la persona possa ritrovare il proprio benessere nel minore tempo possibile, credendo fortemente che l’obiettivo primario di ogni professione di aiuto come anticipato è tendere all’autoestinzione ed allora “non perdiamo tempo”, considerando che come scrive Fossati “(…) c’è un tempo per seminare e uno più lungo per aspettare io dico che c’era un tempo sognato che bisognava sognare!”.
Vorrei concludere questa riflessione con lo scritto “ti auguro tempo” di Elli Michler:
“Non ti auguro un dono qualsiasi,
ti auguro soltanto quello che i più non hanno.
Ti auguro tempo, per divertirti e per ridere;
se lo impiegherai bene, potrai ricavarne qualcosa.
Ti auguro tempo, per il tuo fare e il tuo pensare,
non solo per te stesso, ma anche per donarlo agli altri.
Ti auguro tempo, non per affrettarti a correre,
ma tempo per essere contento.
Ti auguro tempo, non soltanto per trascorrerlo,
ti auguro tempo perché te ne resti:
tempo per stupirti e tempo per fidarti
e non soltanto per guardarlo sull’orologio.
Ti auguro tempo per toccare le stelle
e tempo per crescere, per maturare.
Ti auguro tempo per sperare nuovamente e per amare.
Non ha più senso rimandare.
Ti auguro tempo per trovare te stesso,
per vivere ogni tuo giorno ,
ogni tua ora come un dono.
Ti auguro tempo anche per perdonare.
Ti auguro di avere tempo, tempo per la vita!
Aristotele, Fisica, Milano, 1995
- Bazzani, Esperienza del tempo. Studio su Hegel, Editrice Clinamen, Firenze, 2009
- Bergson, Saggio sui dati immediati della coscienza , in Opere (1889-1896), trad.it. di F. Sassi, Mondadori
Luciano De Crescenzo, Panta rhei, Modadori, Milano, 1994
G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, 1807
- Heiddeger, Essere e Tempo, 1927, Milano, 1976
Platone, Timeo, Roma-Bari, 1974